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martedì 29 dicembre 2009

Torta d'arance e mandorle alla maniera ebraica sefardita

Benché siano passati svariati anni dalla prima volta in cui feci la rinfrescante torta di arance e mandorle mediorientale, ennesimo prestito di Sandrá, da non confondere con l'altra ricetta protagonista della saga delle torte d'arance malriuscite, per qualche ignoto motivo non ne avevo mai scritto la ricetta.

Chi preferisce leggerla in francese, troverà ovviamente la ricetta nel blog di Sandra.
La ricetta originale, a quanto ho capito grazie al mio imbattibile francese decurtisiano è della signora Claudia Roden, i cui libri sulla cucina mediorientale purtroppo mancano alla mia libreria. La versione in spagnolo della stessa ricetta la trovate su questo bel blog di cucina.

La mia però presenta qualche piccola differenza:
prima di tutto ho riciclato due arance che mi erano avanzate dalla preparazione della marmellata di arance e chiles serranos della settimana scorsa e dubito che ci sia qualcuno disposto ad aspettare quattro giorni di ammollo per fare una torta. In teoria non dovrebbe essere necessario attendere tanto, però ho notato che, rispetto alle versioni precedenti, questa volta la vaga sfumatura amarognola non c'era, merito probabilmente dell'apposito trattamento.
Infine ho aggiunto un etto di farina di mia iniziativa perché dopo ennemila esperienze con torte a base di farina di mandorle volevo evitare, una volta sfornate, di vederle crollare come le cupole di certi palazzetti dello sport sotto il peso della neve.

Ingredienti:
2 arance non trattate
250g di farina di mandorle
250g zucchero
100g di farina (aggiunta mia, volendo si può fare senza)
6 uova
1 bustina di lievito istantaneo (vanigliato o meno)
1 bacca di cardamomo
1 pizzico di sale

Procedimento:
Mettete a bagno le arance non trattate, meglio se la sera prima, io ho esagerato e le ho lasciate quattro giorni, come dicevo prima. Prendete quindi le arance e frullatele dopo aver asportato il picciuolo verde ed eventuali tracce nere. Approfittatene intanto per accendere il forno a 180 gradi.
Aggiungere quindi le uova, lo zucchero, un pizzico di sale, la farina di mandorle, il lievito, la bacca di cardamomo aperta e pestata nel mortaio ed eventualmente la farina tipo 0 se volete provare la mia variante. Mescolate bene il tutto e versate in uno stampo a cerniera imburrato e infarinato di almeno 24cm, il mio era di 26cm.

Infornate per circa un'ora, ma potrebbe anche occorrere di più. Durante i primi 30 minuti coprite la torta con un foglio di alluminio, che poi toglierete per lasciar prendere colore alla torta.

Quando la solita prova dello stecchino ve lo restituirà asciutto se infilato al centro della torta, sfornatela e lasciatela raffreddare qualche minuto. Quando aprite la cerniera siate delicati perché potrebbe rimanere attaccata su qualche lato, in quel caso staccatela delicatamente usando un coltello.

Questo genere di torte per me va sempre consumato dopo alcune ore o il giorno dopo.
Servitela spolverizzata di zucchero a velo.

martedì 22 dicembre 2009

Una tlazzesca marmellata di arance e chile serrano

Come si usa dire in questi casi, bisogna fare di necessità virtù. E siccome ho perso la speranza di trovare la marmellata di arance e chiles jalapeños perfino in Messico, ho deciso di farmela in casa.


Queste iniziative estemporanee non mi vengono spesso, perché io non sono assolutamente il profeta delle marmellate caserecce, mi pare ce ne siano in commercio di ottime e un giorno magari polemizzerò volentieri in merito :-)
La marmellata di arance e chiles serranos è un'imitazione di una meravigliosa mermelada de naranjas y jalapeños che degustai anni fa, rimanendomi impressa nella memoria e covavo l'intenzione di farmela non appena fossi entrato in possesso di qualche chilo di arance non trattate. Per fortuna è venuta in soccorso mia cugina, grande intenditrice di cose siciliane per quistioni di matrimonio. Con le arance non trattate a disposizione e per giunta gli ultimi chiles serranos della piantina miracolosamente sopravvissuta, non potevo più titubare.

Sono abbastanza soddisfatto della riuscita della mia prima marmellata casalinga, benché intraveda la possibilità di fare alcuni aggiustamenti casomai la dovessi rifare. Ad esempio, proverei a mescolare zucchero bianco e zucchero di canna grezzo, per vedere se viene un po' meno scura. E forse metterei due chiles in più perché quattro la rendono appena appena piccante. Vedremo anche cosa dicono le cavie a cui invierò alcuni campioni di questo esperimento.

Ingredienti:
2 Kg di arance non trattate
2 Kg di zucchero di canna tipo piloncillo, panela, guarapo o mascabado.
2 buste di pectina (dose per 1 chilo di frutta ciascuna)
4 chiles serranos (o jalapeños)

Procedimento:
mettere a bagno per almeno 4 giorni le arance dopo averle punte superficialmente con uno stuzzicadenti. Fate conto di dover pungere ciascun arancio in 40-50 punti, senza andare troppo in profondità. Ricordarsi di cambiare l'acqua ogni giorno, le arance tenderanno ad espellere una resina oleosa.

Dopo la fase preparatoria, tagliatele in quattro parti e poi in fettine sottili, che verserete in una pentola capiente. Mescolate bene la pectina a freddo e portate le arance a ebollizione a fuoco vivo, a quel punto versate lo zucchero che dovrebbe liquefarsi quasi immediatamente.

Mescolate costantemente finché non riportate il tutto a ebollizione. L'ebollizione si nota dal fatto che si tende a produrre una notevole quantità di schiuma. Contate 3 minuti, sempre mescolando e poi spegnete, mescolando finché la schiuma non sparisce. A quel punto potete iniziare a versare la marmellata nei vasetti già sterilizzati, riempiendoli quasi fino all'orlo, tappandoli a caldo e capovolgendoli.
Ora, la domanda fatidica è sicuramente: ma quanti vasetti servono?
Incredibilmente, col mio criterio spannometrico, mi sono sbagliato di due vasi per eccesso.


Praticamente 4Kg abbondanti di marmellata sono finiti in 10 vasetti da 0,15L (del peso finale di 400g circa, vetro e tappo compreso) e due vasi ad anforetta del peso finale di 1,1Kg ciascuno (vetro e tappo compreso). Credo anche che le mie arance pesassero leggermente di più di 2Kg, per cui la proporzione tra frutta e zucchero, anziché essere 50-50 sarà stata circa 52-48.

Ah, nel caso i conti non vi tornassero, nella foto manca all'appello il decimo vasetto, sottoposto ad un severissimo controllo di qualità da parte dello scrivente...

test

Pagina di prova

Ingredienti per Spaghetti al pomodoro

Ingrediente Q.tà Prezzo Costo
spaghetti (garofalo) [ 500g ] 400 g 1,09 ,87
pomodori pelati bio (esselunga) [ 400g ] 400 g ,55 ,55
aglio [ 150g ] 15 g 1,1 ,11
basilico (fitimex) [ 30g ] 10 g ,99 ,33
totale:     3,73 1,86


testo a seguire

domenica 20 dicembre 2009

Oggi pasta al forno

Queste fredde giornate invernali mi mettono un'insana voglia di quei piatti semi-tradizionali che una volta costituivano l'ossatura del pranzo domenicale di mia madre. Definirli sostanziosi è un eufemismo. Quando non aveva voglia di fare qualcosa di troppo impegnativo, puntava sulla classica pasta al forno, praticamente la versione light del pasticcio ferrarese.

Già da qualche giorno stavo ruminando la cosa, tant'è che comprai apposta certi zitoni con l'intenzione dichiarata di fargli un pigiamino di ragù e besciamella. Gli zitoni mi piacciono assai ma cuocerne un chilo è un impresa. Serve una pentola di quelle grandi per cuocerli interi, altrimenti si rischia di ritrovarsi con alcuni cotti solo a metà perché essendo lunghi e rigidi, tendono a svettare fuori dalla pentola finché non si ammorbidiscono.
Forse bisognerebbe spezzarli, ma la pasta lunga mi piace lunga, se no che gusto c'è?

Ingredienti:
1Kg di pasta di semola di grano duro
ragù a piacere
1 litro di besciamella
formaggio parmigiano-reggiano grattugiato a piacere

Ingredienti per un litro di besciamella:
1/2 litro di latte
1/2 litro di acqua
100g di farina tipo 0
100g di burro
noce moscata q.b.
pepe nero macinato q.b.
sale q.b.

Ingredienti per il ragù:
500g di carne di manzo macinata
300g di pesto per salamella
30g di burro
5-6 fettine di porcini secchi
2 carote medie
2 gambi di sedano
2 cipolle piccole
2 foglie di salvia
2 cucchiai di concentrato di pomodoro
2 cucchiai d'olio d'oliva
1 bicchiere di vino bianco secco
1 chiodo di garofano
mezza foglia di alloro
5-6 grani di pepe nero
una punta di cucchiaino di cannella
una grattata di noce moscata
acqua q.b.
sale q.b.

Procedimento:
Per prima cosa va fatto il ragù. Senonché il ragù come lo si intende qua richiede svariate ore di cottura, per cui o si parte all'alba, come vuole la tradizione dei tempi che furono, oppure lo preparate il giorno prima.
Conviene usare le pentole di terracotta perché mantengono meglio il calore a fuoco basso.
Oh, si badi bene, non sto dando la ricetta del ragù, come se ne esistesse veramente una ufficiale, ma semplicemente quella che mi è venuta di fare ieri, che poi non è detto sia uguale alla prossima volta...
Le rézdore di campagna sicuramente lamenteranno l'assenza dei fegatini di pollo o di altre frattaglie, ma per i comuni cittadini a volte sono difficili da trovare e comunque non avranno mai il sapore di quelli dei polli ruspanti d'na volta.
Amen.
Si parte con il trito di cipolla, carota e sedano da far soffriggere nel burro e olio. Quando le verdure saranno ben appassite, si unisce la carne macinata e il pesto della salamella. Far rosolare per una decina di minuti e poi unire il vino bianco. Si uniscono via via le altre spezie e i funghi e si allunga con un po' di acqua o brodo, giusto per mantenere il livello del liquido appena sopra la carne. Salate con moderazione. Quando il ragù inizia a bollire, si copre con il coperchio e da qui in poi è una questione di pazienza. Si aggiusta di sale man mano, aggiungendo anche pepe o noce moscata secondo i propri gusti. Diciamo che il ragù dovrebbe sobbollire per non meno di 5 ore...

Diamo quindi per scontato che il ragù non aspetti altro che convolare a nozze con la pasta. Pigliate una bella pentolona piena d'acqua e cuocete il formato di pasta prescelto. Per la pasta al forno di solito si usano formati col buco, maccheroni, torciglioni, sedanini, ziti, zitoni, ma anche paccheri, mezze maniche e via discorrendo.
La pasta va levata più che al dente. Non dico che debba fare crac sotto ai denti, ma tenete presente che finirà di cuocere nel forno ricoperta di besciamella, quindi tiratela via almeno 2 minuti prima del tempo normale.
Scolatela rapidamente e conditela con sufficiente ragù o nella pentola o direttamente nella teglia da forno.

La besciamella...
Mentre l'acqua si scalda, approfittatene per accendere il forno (200 gradi) e cimentarvi nella besciamella, facendo prima soffriggere il burro e appena inizierà a sfrigolare versate la farina, mescolando bene. Quando il composto inizierà a schiumare, aggiungete un po' alla volta il latte allungato con l'acqua, lasciandone circa un quarto del totale nel recipiente. Salate leggermente e continuate a mescolare a fuoco medio finché la besciamella inizierà a rapprendersi. Grattateci dentro un po' di noce moscata e di pepe nero. Quando la besciamella sarà cremosa, aggiungete il rimanente liquido spegnendo il fuoco e mescolando bene. Versare quindi la besciamella copiosa sulla pasta condita e infornate a 200 gradi per 20-30 minuti o comunque finché la superficie assumerà la caratteristica colorazione rossastra a chiazze.

pasta al forno
Per chi la gradisce, una bella grattugiata di parmigiano, sarà una degna sepoltura.

pasta al forno
Dato che in occasione di questi pranzi di solito non c'era il secondo, oggi, per rimanere fedeli alla tradizione, siamo passati direttamente al dolce... rispolverando la ricetta della torta greca mantovana, con qualche piccolo aggiustamento di cui vi dirò in futuro.

E dopo un pranzo leggero leggero, tutti fuori a tirare palle di neve, forza un po'.

giovedì 10 dicembre 2009

Regali di Natale 2009

Come ormai sanno anche i muri, a Natale, per tradizione, regalo dolcetti fatti con le mie manone più o meno sante. E da questo punto di vista sono molto tradizionalista, cioè tendo a fare sempre le stesse ricette.


Ad esempio, la sbrisolona mantovana è d'obbligo, anche perché oltre ad essere buona, è molto pratica da spedire, rimane ottima per almeno due settimane e quindi non si corre il rischio che arrivi "vecchia" a destinazione.
L'altro dolce prediletto, aggiunto al palmarés giusto un anno fa, grazie a Laura, è il panforte di Siena.


Anche lui quest'anno diventerà un ambasciatore della cucina tlazzesca nel mondo. Tra l'altro quest'anno l'ho fatto usando il pepe lungo (piper longum), un pepe molto aromatico che mi è stato suggerito dal mio spacciatore di spezie ufficiale.
Mai più senza! :-D


Come dicevo prima, quest'anno alcuni di questi manicaretti prenderanno addirittura l'aereo in diverse direzioni del globo. Se lo vengono a sapere a Copenhagen, mi sparano.

sabato 5 dicembre 2009

Crostatine ai pistacchi

Un'altra reminiscenza di quella ormai lontana volta che andai a cenare nella Taverna del ghetto, in via Portico d'Ottavia a Roma: la crostata di mandorle e pistacchi.


Ricordo che la visione di questa torta mi colpì profondamente e da allora, imitarla, è sempre stata una specie di fissazione. Siccome però sono ormai passati sei o sette anni da allora, i miei ricordi sono piuttosto vaghi e quindi non mi stupirei se qualcuno dicesse: ma la crostata di mandorle e pistacchi della Taverna è completamente diversa!
Sia come sia, queste crostatine mignon, sono venute buonissime e sapete che io non mento mai :-) Diciamo quindi che si tratta di una volenterosa imitazione e finiamola qua.

Ovviamente nulla vieta di usare uno stampo rotondo da circa 26cm e farci una crostata singola.

Come pasta frolla ho preso pari pari quella già utilizzata per i semolini fiorentini, mentre il ripieno me lo sono inventato io.

Ingredienti per il ripieno:
100g di mandorle tritate finissime (farina di mandorle)
50g di pistacchi tritati finissimi
3 cucchiai di zucchero a velo
1 pizzico di sale
1 uovo
1 bianco (riciclando quello avanzato dalla pasta frolla)

Ingredienti per la pasta frolla:
250g di farina
150g di zucchero
125g di burro
4g di vaniglia (1 bustina)
2 cucchiai di vino bianco secco
1 uovo
1 tuorlo
1 pizzico di sale

Procedimento:
la preparazione della pasta frolla è molto semplice, si sbattono le uova con lo zucchero, la vaniglia, un pizzico di sale e due cucchiai di vino bianco. Si aggiungono gradualmente la farina setacciata e il burro a temperatura ambiente, fino ad ottenere un impasto morbido ma lavorabile, con il quale si rivestono gli stampini.

Come vedete, dodici stampini non bastano e sono stato costretto a usare l'impasto rimanente per fare 5 crostatine alla marmellata di limone, una vera sofferenza! :-D

Il ripieno è molto semplice da preparare, basta tritare le mandorle e i pistacchi un po' alla volta con un macinino da caffè, poi si uniscono gli altri ingredienti fino ad ottenere una crema piuttosto densa. Con l'aiuto di un cucchiaino si deposita il ripieno nella formina di pasta frolla, fino ad esaurirlo.

Infornate per circa 20 minuti a 180 gradi, i bordi delle crostatine devo prendere colore.
Di solito cerco di mettere la leccarda appena sotto la metà del forno, in modo che il calore sia più vicino nella parte inferiore.
Se vi sono avanzati pistacchi, tritatene qualcuno grossolanamente e decorate le crostatine, di sicuro sembreranno più attraenti grazie ai riflessi verdi della graniglia, io purtroppo li avevo finiti!
Come tutte le crostate, per me è sempre migliore se consumata il giorno dopo.

sabato 21 novembre 2009

I cotechini di Fava ovvero la Ferrari dei cotechini

Nonostante il cotechino assieme al cugino zampone siano diventati una classica pietanza da cenone di San Silvestro, quando mi capita per le mani un signor cotechino di Mastro Fava da Castelletto Borgo (Mn), già salumiere di fiducia fin dai tempi dei miei nonni materni, ormai oltre quaranta anni fa, non ci sono santi e capodanni che tengano, finisce cotto al vapore alla prima ghiotta occasione con un pigiamino di fagioli o lenticchie a corredo.

Questo lussureggiante esemplare mi era stato regalato da mia zia, assieme a quattro salamelle che avevo già giustiziato alla solita maniera, cioè nel rís e salamele. Sono già vari anni che non vedo il sig. Fava di persona, ma per fortuna i miei zii tengono ancora i contatti e ogni tanto mi elargiscono questi meravigliosi doni.
Ricordo però molto bene la sua bottega e il profumo della stanza di stagionatura dei salami, per non parlare della sua celebre pancetta arrotolata, un'esperienza quasi mistica. Temo che in mancanza di un navigatore GPS ora non riuscirei manco ad arrivare a Castelletto Borgo, perché il progresso, come si suol dire, s'è mangiato le vecchie strade di campagna per lasciare posto a questi bei capannoni prefabbricati di color grigio fumo, alle tangenziali e alle villette a schiera.

Senonché questa volta la ghiotta occasione s'è presentata inaspettatamente quando mia moglie, di soppiatto, l'ha tagliato, pensando fosse uno dei celebri salami del mastro salumiere mantovano, per farlo assaggiare ad un ospite. Immaginatevi che vi stappino la bottiglia di vino prestigioso per farci del ragù, stavo per svenire quando ho visto il prezioso insaccato trafitto dalla proditoria lama d'acciaio.

Ma non posso farle una colpa, la passione per i salumi è una cosa decisamente europea, Argentina a parte. Nella cucina messicana i salumi, genericamente detti embutidos, sono per lo più costituiti dalla famiglia dei chorizos, una chiara eredità spagnola. Non che i messicani non conoscano prosciutti e salami, il jamón serrano spagnolo è ben noto ed esistono perfino finte marche italiane che spacciano improbabili prosciutti cotti di Parma, ma diciamo che, sia per questioni economiche, sia gastronomiche, il messicano medio vive benissimo senza la compagnia di prosciutti, salami e mortadelle.

Ora, in base a cosa dichiaro che questo particolare cotechino è la Ferrari dei cotechini?
Contrariamente a quel che si può pensare, cioè che si tratti della semplice opinione di un parvenu della gastronomia, oso affermare che esistono degli incontrovertibili criteri empirici per giudicare la bontà di un cotechino, che vado ad elencare:

  1. Un buon cotechino, emana un odore gradevole anche prima di essere cotto.
  2. Durante la cottura non appesta la cucina con un odore simile a quello che sentite arrivando al casello di Modena Sud provenendo da Bologna.
  3. Il sapore è gradevole, ben bilanciato, non ha punte aspre, ma soprattutto non è maialesco.
  4. Non incontrate parti dure o immasticabili.
  5. Tre quattro ore dopo l'avrete digerito senza problemi e senza l'aiutino dell'alka seltzer.

Inutile dire che questo soddisfaceva ampiamente tutti questi criteri per unanime decisione di tutti i commensali.
Perciò standing ovation per il Mastro salumiere Fava e i suoi venerabili 80 anni e passa, speriamo di poterne gustare ancora molti di cotechini così!

sabato 14 novembre 2009

Torta messicana!

Già mi immagino lo sconcerto aprendo la pagina: torta? dov'è la torta?
Per chi si fosse sintonizzato solo ora, la torta in Messico è sinonimo di panino.
Solo che i panini messicani non sono minimalisti come i panini italiani o i bocadillos spagnoli dove il pane accompagna semplicemente del salume, ma si tratta di panini farciti, che obbligano le fauci a spalancarsi fin quasi a slogarsi per addentare i quattro, cinque o sei strati che compongono questa specie di pranzo all-inclusive.

La torta è il tipico pranzo dell'operaio, del muratore o comunque di chi ha poco da spendere ma necessiti di qualcosa di sostanzioso e facilmente trasportabile. È un'abitudine che non si perde nemmeno da emigrati, durante l'ultimo viaggio a San Francisco ho visto tanti emigrati messicani impiegati in lavori stradali che all'ora di pranzo divoravano le immancabili tortas, seduti sul ciglio della strada.
Ovviamente non esiste la ricetta della torta, esistono infinite varianti perché ciascuno può mettere quel che preferisce, anche se comunque esistono grandi classici come la torta de pierna de puerco, la torta de jamón o la torta ahogada, una variante servita in un piatto fondo perché viene bagnata con la salsa di cottura della carne. A San Francisco, l'ultimo giorno andai a mangiare una bella torta al pastór, con tanto di pezzettini di ananas come vuole la consuetudine.

Insomma, se vi è rimasta la voglia di dolce, sappiate che in Messico dovete chiedere una tarta, non un torta, quindi non stupitevi se in una pasticceria dovessero sgranare gli occhi di fronte all'insolita richiesta... :-D

Ingredienti:
600g di carne macinata
4 panini tipo teleras o pane tipo arabo
1 avocado maturo
1 chile guajillo
1 chile ancho
200g di queso botanero (formaggio fresco con erbe e peperoncino)
chiles chipotles adobados
salse a piacere (io sono assai poco amante delle salse non messicane come ketchup, senape e via dicendo)
sale q.b.

Procedimento:
per prima cosa mettere a bagno i peperoncini, i chiles, in acqua bollente e lasciarli ammollare. Quando saranno teneri, apriteli e togliete i semi, poi tritateli finemente e uniteli alla carne macinata. Questa preparazione è simile a quelle delle pacholas.


Anche se in Messico la carne macinata per hamburguesas è rigorosamente bovina, io mi sono preso una licenza poetica e ho usato carne equina perché mi piace di più per questo tipo di preparazioni.
I messicani potrebbero inorridire...
Poi conviene preparare i vari ingredienti crudi, tagliare le fettine di avocado, di formaggio e togliere i semi ai chiles chipotles se non si desidera un gusto molto piccante.
Stamattina al supermercato ho trovato questo bel formaggio fresco alle erbe che mi ricorda abbastanza il queso botanero messicano, anche se il sapore purtroppo non è esattamente identico. Si presta molto bene anche per fare quesadillas.

Suddividere la carne in quattro parti uguali e ricavare delle palle che poi schiacciate.
Prima di mettere la carne sulla bistecchiere a fondo piatto, conviene dare una scaldata al pane. Io ho usato pane di tipo arabo perché è il più somigliante alle teleras, ma volendo si può preparare in casa, l'impasto è uguale a quello dei bolillos. Prendete i panini e tagliateli a metà lungo la circonferenza. Dopo aver velocemente abbrustolito in superficie il pane, giusto il tempo di dargli un po' di colore, mettetelo da parte.

Cuocete la carne per qualche minuto, salatela e poi appoggiatela sul pane. Guarnite con i vari ingredienti e mangiatelo caldo.

A corredo, l'immancabile birra messicana.

lunedì 9 novembre 2009

E tutto d'un tratto spuntò il chile habanero

E quando ormai uno ha perso ogni speranza, ecco succedere l'incredibile: trovare del chile habanero messicano fresco a Modena, un sabato pomeriggio, per caso!

Un amico mi aveva riferito tempo addietro di essere andato in un supermercato etnico dove aveva visto un certo assortimento di prodotti latino americani. Io, ormai stremato da anni di vane ricerche e delusioni cocenti, non gli aveva dato peso più di tanto. Sabato pomeriggio però, passavo di lì per caso e sono entrato al "Hello food store", di via Cesare Costa a Modena, per cercare il latte in polvere, un genere quasi introvabile nei supermercati, a meno di voler comprare quello per neonati.
La prima cosa che mi ha colpito sono state le latte di mais in scatola con tanto di scritta "pozole" sopra, di provenienza americana. Poi la corned beef in scatola pure quella, ma sempre meglio di niente, di provenienza argentina e brasiliana. L'immancabile farina di mais "PAN", per fare arepas, sia bianca che gialla. Purtroppo nessuna traccia di maseca, ma pazienza, ne ho fatto scorta per un anno a San Francisco...
Poi un sacco di prodotti tipo preparati per fare gelatinas, uno dei dessert preferiti in tutta america latina, un giorno dovrò mettere la ricetta della gelatina al rompope (il nostro VOV).
Non sto a dirvi i tipi di farine evidentemente molto utilizzate nelle cucine africane, ce n'erano di mai visti, un giorno dovrò farmi una cultura anche su quelle.
Da comprare alla prima occasione gli olii speciali, come quello di cocco o di mandorla o di sesamo.
Insomma, stavo per uscire quando vedo delle borse trasparenti piene di cose colorate nel reparto frigo, ne prendo uno e leggo "peperoncino piccante prima qualità origine Messico".
Ma questo non è peperoncino piccante e basta, è il mitico habanero, uno dei peperonicini più letali che esistano, immancabile complemento per la cochinita pibíl!
E poi dicono che i miracoli non succedono.

venerdì 6 novembre 2009

Costilla de puerco en mole verde de cacahuates

Siccome sono finalmente arrivati i libri che stavo aspettando, praticamente l'opera omnia di Diana Kennedy, che potremmo definire a buon titolo, guru della cucina messicana per la tenacia e la meticolosità nel raccogliere centinaia e centinaia di ricette da ogni angolo della Madre Tierra, per il pranzo di oggi, ecco una prima succulenta ricetta presa da "Essential cuisine of Mexico", costilla de puerco en mole verde de cacahuates, cioè costaiola o puntine di maiale in mole verde di arachidi.

Come spiega Diana, la ricetta originale proviene da un ristorantino a nord di Veracruz ed è opera di doña Virginia Villalón, che a quanto pare apprese la ricetta dalla zia Chanita.
Peccato non poter fare i complimenti di persona a Virginia per questo piatto da leccarsi le dita.

Ingredienti:
1,5Kg di costaiola di maiale o braciole
250g di tomates verdes (pomodori verdi messicani)
140g di arachidi tostate non salate (circa 250g di quelle con la buccia)
4 spicchi d'aglio
4 chiles serranos
1 cipolla grande
1 mazzetto di coriandolo fresco
6 grani di pepe nero
4 cucchiai di olio di mais
sale q.b.

Procedimento:
prendere la metà della cipolla con due spicchi d'aglio e metterli assieme alla carne in una casseruola, coprendo di acqua. Cuocere per il tempo necessario a rendere la carne tenera, ma senza aspettare che si disfi (circa 1 ora).
Mentre la carne cuoce, preparare la salsa. Sbucciare le arachidi, pulire i tomates verdes togliendo la pellicola esterna, lavare il coriandolo. In una pentola di terracotta in grado di contenere anche la carne che aggiungerete successivamente, versare un cucchiaio di olio di mais e le arachidi, facendole friggere quache minuto, poi aggiungere i due spicchi d'aglio rimanenti e i chiles serranos (o altro tipo di peperoncino piccante verde) e in seguito i tomates, allungando il tutto con un bicchiere d'acqua o di brodo e salare leggermente.
Quando i pomodori saranno cotti, frullare tutto fino ad ottenere una consistenza cremosa. Da quando ho il frullatore ad immersione queste preparazioni sono diventate una passeggiata, niente più passaggi avanti e indietro nel frullatore. Se nel frattempo si è cotta la carne, conviene pescarla e metterla da parte, filtrando il brodo ottenuto, che servirà per la fase successiva.




Io a questo punto ho travasato in una zuppiera la salsa, pulito sommariamente la pentola di coccio e poi l'ho subito usata per friggere la rimanente mezza cipolla. Quando la cipolla è appassita, aggiungere la carne e farla rosolare qualche minuto, infine aggiungere la salsa e allungare leggermente col brodo.
Da questo momento in avanti si tratta solo di far cuocere ulteriormente, per una ventina di minuti o il tempo necessario a rendere la salsa un po' più densa.
Servire con tortillas a volontà.

È molto buono anche qualche giorno dopo se conservato al fresco.

lunedì 2 novembre 2009

‘A fugassa co-e purpe di Mitì

Pur avendo dedicato buona parte del mio tempo alla preparazione di piatti della tradizione messicana del giorno dei morti, vedi il pan de muertos, dopo aver letto il bell'articolo di Mitì sulla fugassa co-e purpe e l'evocativa storia da lei citata legata alle tradizioni di questo periodo, non ho potuto resistere alla suggestione.


Ho un debole per certe ricette della cucina ligure, forse per via dei parenti di mia madre emigrati a Genova, che, nelle rare occasioni in cui ci vedevamo, portavano sempre frammenti di queste focacce sublimi, e per questo motivo entrarono assai precocemente nel mio personale paradiso gastronomico, un luogo dove certamente uno può divorare una focaccia intera senza dare il minimo segno di scompenso nei valori dei trigliceridi e soprattutto senza sensi di colpa.

La ricetta è quella riportata da Mitì, avevo in dispensa del paté di olive e ho usato quello, ma ne ho fatto solo mezza dose.

Ingredienti:
500g di farina
30cl di acqua
12,5g di lievito di birra fresco (mezzo cubetto)
75g di olive nere taggiasche in salamoia o 2 cucchiai colmi di paté di olive
olio extra vergine ligure (2 cucchiai nell'impasto, il resto a piacere dopo)
un cucchiaino di zucchero
sale q.b.

Procedimento:
sciogliere il lievito con lo zucchero, basta mescolarlo per qualche minuto e il miracolo della liquefazione si compirà puntuale, come quello di San Gennaro. Impastare la farina con l'olio, mezzo cucchiaio raso di sale e l'acqua, fino ad ottenere un impasto molto colloso. Aggiungere il paté di olive o le olive taggiasche pestate nel mortaio. Far lievitare almeno 8 ore, poi stendere l'impasto dentro ad una teglia grande ben unta.
Tipicamente la focaccia è bassa, l'altezza di un dito al massimo, per cui occorre stenderla molto sottile, massimo mezzo dito. Nel caso dividete a metà l'impasto e cuocete in due turni.
Cospargere d'olio (o una emulsione di acqua e olio) e bucherellare con la punta delle dita, salare in superficie, infine far lievitare per circa un'ora.


Cuocere per 20-25 minuti in forno a 240-250 gradi, cioè il calore massimo dei forni da casa.
Degustare appena sfornata!

Forse non sarà venuta esattamente come l'originale, però l'ho trovata commovente lo stesso.
Grazie Mitì!

domenica 1 novembre 2009

Pan de muertos 2009

E anche quest'anno è finalmente venuto il momento di gustare il pan de muertos, preparato secondo la ormai collaudata ricetta.

Qua sotto il mini pan de muertos di prova, era tale la smania di assaggiarlo che l'ho tirato fuori appena pigliava colore, ma avrebbe dovuto rimanere in forno altri 10 minuti...

Il migliore come forma è risultato l'ultimo, un pan de muertos da 8 persone.

Quello da 12 persone invece è venuto più basso, però ugualmente soffice e leggero.

La colazione tipica del día de muertos, che mi sono sognato tutta la notte...

Finalmente.

PS: mi sono accorto all'ultimo momento che non avevo 7 tuorli per il secondo impasto, ho usato invece 3 uova medie intere e a giudicare dal risultato il sapore e la consistenza non mi sembra ne abbiano risentito molto.

lunedì 26 ottobre 2009

Arroz a la tumbada

E dopo il chilpachole, ecco il secondo piatto costeño, veracruzano, specialità della cittadina di Alvarado, l'arroz a la tumbada, che ho scoperto durante la mia recente trasferta a San Francisco, grazie ad una memorabile cena al ristorante Zazil.


Prima di tutto voglio dedicare questa ricetta all'amica Rebecca, per almeno tre ottimi motivi.
Grazie al blog from Argentina with love ho conosciuto tante stupende ricette di cucina argentina, condite di belle fotografie e viste con l'occhio e la passione di chi non è nato in Argentina e quindi doppiamente meritevole. Poi, con un'iniziativa inaspettata quanto gradita, Rebecca ha preso molto seriamente alcune mie frasi nostalgiche e ha pensato di mandarmi dei generi di conforto messicani che ho prontamente usato per la ricetta di oggi e infine, siccome è in procinto di trasferirsi in Messico, proprio a Veracruz, questo piatto succulento serve anche per darle un'idea concreta di cosa l'aspetta in tavola da quelle parti.

Ma che sarebbe in definitiva questo arroz a la tumbada?
Potremmo definirlo sbrigativamente una sontuosa zuppa di pesce alla messicana con riso, una bouillabaisse per dirla alla francese.
Pare che a la tumbada in questo contesto abbia il significato quasi romanesco, di riso allo scottadito perché va servito bollente. Al ristorante Zazil infatti mi venne servito in una specie di marmitta di acciaio temperato che doveva essere stato in forno fino ad un istante prima, dato che arrivò in tavola ancora gorgogliante.

Ingredienti:
400g di riso
200g di gallinella o triglia
200g di anelli di totano o seppie
200g di ciuffi di totano o polipetti
200g di mazzancolle o gamberi
200g di granchi (ma a Veracruz mettono jaiba)
4 scampi grandi oppure 2 astici o addirittura aragosta.
100g di burro (50g per il primo soffritto e 50g per il secondo)
2 cucchiai d'olio di mais (o di oliva)
4 pomodori rossi pelati (1 scatola di pelati da 400g va benissimo)
2 cipolle medie
2 spicchi d'aglio grandi (oppure 4 piccoli)
4 chiles serranos
2 chiles de árbol

un mazzetto di prezzemolo fresco
un mazzetto di coriandolo fresco
un ciuffo di epazote fresco o disidratato
sale q.b.

Procedimento:
per prima cosa occorre preparare il brodo di pesce, se non ne avete già per qualche altro motivo. A questo scopo io avevo preso le gallinelle, i granchi, i ciuffi di totani e le mazzancolle, queste ultime però cotte solo 5 minuti e poi ritirate per essere sgusciate e pulite. Ovviamente siete liberi di aggiungere o cambiare i tipi di pesce, come tutte le zuppe di pesce si suppone che venga fatta col pesce fresco disponibile. Il brodo l'ho lasciato bollire finché i totani non sono diventati teneri e le gallinelle praticamente sfatte.
Mentre il brodo va per conto suo, a fuoco moderato, si procede con la salsa di pomodoro. Per questa fase conviene usare una pentola di coccio capiente, che servirà poi per servire tutta la zuppa. Le pentole di coccio si prestano molto per questa zuppa perché mantengono il calore più a lungo di quelle d'acciaio e quindi la zuppa sembrerà proprio tumbada del fogón.
Si tritano una cipolla e gli spicchi d'aglio piuttosto finemente e si fanno soffriggere in un misto di burro e olio di mais (o di oliva se preferite). So che sembra strano l'uso del burro, però tutte le ricette parlano di burro con aggiunta di qualche cucchiaio d'olio. Mentre la cipolla appassisce, si tagliano a striscioline i chiles serranos, togliendo i semi se non volete una zuppa molto piccante ed aggiungendoli al soffritto.


Quindi, quando la cipolla è imbiondita, si aggiungono i pomodori pelati. Si aggiunge un po' di sale, senza esagerare perché poi conviene salare il tutto quando viene unito al brodo di pesce, si lascia cuocere almeno 15 minuti, come se si trattasse di fare un sugo di pomodoro. In questa fase si possono aggiungere anche due chiles de árbol interi che servono a profumare ulteriormente il brodetto.



Quando i pomodori sono diventati salsa si aggiunge il brodo di pesce filtrandolo, se è pronto, se no si attende.
Dopo aver aggiunto il brodo, fino a riempiere appena oltre la metà la pentola, si pescano le parti commestibili rimaste nell'altra pentola col resto del brodo, i ciuffi di totano sicuramente, alcune parti della polpa dei pesci cercando di eliminare le spine. Le mazzancolle dovreste averle già tolte e pulite in precedenza e siccome sono già cotte, vale la pena metterle per ultime, poco prima di servire. Se riuscite, potete aprire i granchi ed estrarne la polpa, specialmente se sono grossi, altrimenti non vale la pena.

A questo punto aggiungere un pizzico di epazote secco, oppure una decina di foglie di quello fresco. L'epazote ha un odore caratteristico che non a tutti piace, in genere si usa con parsimonia.
Aggiustare di sale, se è il caso.
Non rimane che preparare il riso. Ora, io, siccome volevo strafare, ho preso un riso integrale senza accorgermi che era del tipo parboiled, che in genere detesto abbastanza. Consiglio di usare piuttosto un riso tipo l'originario, non il basmati che si cuocerebbe troppo velocemente, ma nemmeno un rolo o un vialone nano che c'entrano poco con il riso messicano. Sia come sia, alla fine questo riso integrale parboiled non era malvagio, ma forse nemmeno il massimo, comunque tant'è.

Il riso si fa tostare come se stessimo preparando un risotto, cioè con il suo trito di cipolla soffritta nel burro. Quando la cipolla è imbiondita si aggiunge il riso e lo si mescola spesso, finché i grani non cambiano leggermente colore.

Infine si versa il riso nel brodetto, che deve ovviamente essere molto liquido.
Si fa andare per circa 15 minuti e si approfitta di questo tempo per tritare gli ultimi aromi freschi, un mazzetto di coriandolo e uno di prezzemolo. Ho letto varie ricette e in alcune c'era il coriandolo, in altre prezzemolo.
Ho salomonicamente deciso che andavano entrambe e secondo me feci bene.

A cinque minuti dalla fine, più o meno, versate nella zuppa gli ultimi pesci: gli anelli di seppia e gli scampi. Gli anelli di seppia vanno cotti poco perché rimangano teneri e gli scampi non necessitano in effetti di una cottura più lunga.

Servire in ciotole capienti, guarnendo con il prezzemolo e il coriandolo e ripartendo democraticamente i crostacei pregiati. In effetti i 4 scampi mi sono costati come tutti gli altri ingredienti messi insieme.

L'arroz a la tumbada si può servire con corredo di tortilla, ma io non ne vedo molto la necessità vista l'abbondante presenza di riso.
È una zuppa veramente ricca e si può considerare a tutti gli effetti un piatto unico.
Se penso che a San Francisco l'ho fatta precedere persino dal chilpachole, mi chiedo come ho fatto ad arrivarci in fondo, ma forse il mio giropanza potrebbe spiegarlo benissimo...

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