Quando mia madre preparava i gnocchi alla romana, per me era festa.
Non solo perché mi sono sempre piaciuti moltissimo, specialmente se ben abbrustoliti in forno, con quella deliziosa crosticina croccante, ma anche perché la fase del ritaglio era compito mio ed io prendevo la cosa molto seriamente.
La storia dei gnocchi alla romana è piuttosto controversa, tanto che si giunge a dubitare del fatto che i gnocchi a base di semolino siano i veri gnocchi alla romana. Insomma, sarà nata prima la versione con il semolino o con la patata? Ma soprattutto, cosa c'entrano l'una con l'altra, visto che in tutti i casi si parla di piatti diversi, conditi in maniera completamente differente?
Sia come sia, per mia madre i gnocchi alla romana erano questi qui e io, un po' per pigrizia, un po' non si sa perché, non li faccio così spesso come meriterebbero.
La prossima volta magari farò l'esperimento del pane grattugiato, così come riportato nella ricetta contenuta nel primo collegamento.
Ingredienti:
250g semolino
1 litro di latte
2 uova
75g di burro (circa)
noce moscata q.b.
sale q.b.
parmigiano reggiano grattugiato q.b.
Procedimento:
si inizia preparando la polentina di semolino, mettendo il latte con il sale e la noce moscata in una pentola idonea. Quando il latte comincia a bollire si versa lentamente a pioggia il semolino, mescolando continuamente per evitare la formazione di grumi. Dopo circa 5 minuti dovrebbe essersi formata una polenta piuttosto soda, spegnete e lasciate intiepidire. Approfittate di questa pausa per ungere la superficie di burro, così come le pirofile dove poi andranno sistemati i gnocchi. Quando l'impasto sarà tiepido, aggiungete 2 uova e due manciate di formaggio parmigiano e amalgamate il tutto per bene. A questo punto stendete l'impasto sulla superficie di lavoro fino ad ottenere una pastella dell'altezza di un dito.
Munitevi di uno stampino tondo e ricavate dei dischetti che poi sistemate pazientemente leggermente inclinati.
Spolverateli con altro formaggio e qualche ricciolo di burro e infornate per circa mezz'ora nel forno a 200 gradi.
Se la forma tonda vi dovesse venire a noia, potete anche usare formine più estrose, più sotto vedete che mi sono sbizzarrito ed ho perfino sfornato dei gnocchi alla messicana a forma di cactus...
Il passaggio nel forno trovo che sia assolutamente necessario, i gnocchi acquisiscono un sapore completamente diverso grazie alla gratinatura, al formaggio fuso e al burro.
Sono anche ottimi candidati per essere surgelati prima della cottura e tirati fuori quando si ha poco tempo a disposizione ma voglia di qualcosa di buono.
Cerca una ricetta o un ingrediente
domenica 30 novembre 2008
Gnocchi alla romana o almeno così credeva mia madre...
sfornato da
Byte64
alle
12:30
6
assaggi
archiviato in Cucina italiana, Cucina romana, Primi
giovedì 27 novembre 2008
Spaghetti alle telline
Non sarà una ricetta particolarmente fantasiosa, ma è pur sempre un grande classico, come gli spaghetti alle vongole che hanno una preparazione quasi identica, eccezion fatta per il filtraggio del brodetto nel caso esca molta sabbia e mi risulta che qualcuno sia diventato quasi miliardario a furia di servire spaghetti alle vongole fatti come Dio comanda a Città del Messico.
Rispetto alla vongola, la tellina ha un sapore più delicato o così a me sembra.
Le telline mi ricordano l'infanzia, quando da bimbo molto fortunato i miei, a giugno, mi portavano al mare a Marina di Pietrasanta, località le Focette, grazie alla generosità di amici che ci prestavano una villa da cartolina.
Al "bagno Giovanni", che poi diventò molti anni dopo "90-simo minuto", passavo la giornata a costruire piste di sabbia per le biglie, quelle con le facce dei ciclisti, erano i tempi di Gimondi, di Zandegù, di Panizza, di Merckxx soprattutto, mica pizza e fichi... oppure a passeggiare tra la foce del Tamanaco e lido di Camaiore o a fare il bagno con qualche coetaneo o coetanea e chissà che fine avranno fatto Romy e sua sorella, due ragazzine fiorentine che stavano in affitto nell'appartamentino attaccato allo stabilimento balneare.
Se ci siete battete un colpo...
Vicino al bagno Giovanni c'era il bagno Onda e poi il bagno "Bussola", quello del mitico locale dove andavano a cantare Celentano, Mina, Little Tony, insomma, tutti i cantanti in voga tra gli anni '60 e '70. Invece negli hotel vicini si vedevano spesso i calciatori, mi ricordo di Facchetti alla pensione "Motta", quando un cono gelato costava 50 lire.
In qualche occasione speciale capitava di andare in un ristorante chiamato la Giunca, dove nonostante la tenera età mi "scofanavo" una discreta porzione di caciucco e quel caciucco mi è sempre rimasto impresso.
Alla sera i bagnini prendevano i rastrelli con i quali alla mattina andavano a raccogliere le telline e pulivano la spiaggia da cima a fondo ed erano cazziatoni se uno si azzardava a pestare la spiaggia appena tirata a lucido. Non so se ci sia ancora questa usanza in Versilia, sono troppi anni che non frequento più quei posti.
Ingredienti:
500g spaghetti n.5
500g telline fresche
4 spicchi d'aglio
1 mazzetto di prezzemolo
peperoncino rosso opz.
olio extravergine q.b.
Procedimento:
mettete sul fuoco l'acqua per gli spaghetti, ma vanno bene anche delle linguine, e quando bolle salatela. Nel frattempo preparate il trito di prezzemolo. Prima di buttare la pasta, prendete gli spicchi d'aglio e fateli abbrustolire in 5 cucchiai d'olio in una padella larga (vedi foto), aggiungendo anche del peperoncino se vi piace e a me, si sa, piace molto, anche se non lo metto su ogni cosa. Con questo genere di condimento il chile guajillo è fantastico. Quando l'aglio sarà ben dorato, buttate le telline e coprite. Buttate anche la pasta. Dopo qualche minuto verificate che le telline si siano aperte, a questo punto aggiungete un bicchiere di vino bianco secco di qualità. Chiudete il coperchio fate andare un altro minuto, massimo due e spegnete. Quasi in contemporanea dovrebbe essere pronta anche la pasta.
Scolare ben al dente e buttatela sopra le telline nella padellona e fatela saltare a fuoco vivo, aggiungendo il trito di prezzemolo e servire fumante.
lunedì 24 novembre 2008
I papasin
I papasín sono tra i dolcetti che più mi ricordano l'infanzia, quando capitava di passeggiare per il centro di Mantova con mia madre durante qualche domenica di tardo autunno o inverno.
In piazza delle erbe o nelle vicinanze era facile trovare un banchetto dove vendevano i dolci a base di farina di castagne e per qualche motivo i papasín hanno sempre colpito il mio immaginario, forse più della patóna (nome in dialetto mantovano del castagnaccio), che di solito ha una consistenza più tenera. L'altro grande classico di casa mia a base di farina di castagne sono le frittelle, ma questa è un'altra storia.
L'arte del papasín, se mai esiste, consiste nel farli della giusta consistenza, né troppo duri, né troppo molli. Ovviamente le versioni meno nobili non prevedevano né la presenza di uvetta, né di pinoli ed ovviamente ciascuno è libero di fare come crede.
Il principale difetto dei papasín sta nel fatto che uno tira l'altro e la farina di castagne non è esattamente "dietetica".
Ovviamente i papasín non sono una specialità mantovana in senso stretto, con lo stesso nome sono conosciuti anche a Verona (se non sbaglio), mentre qui a Modena non so come venissero identificati, ma ricordo che tanti anni fa c'era un negozietto vicino a Piazza Grande che li vendeva. Curiosamente ho trovato un blog di una simpatica rezdora bolognese (e speriamo che Ivana non si offenda se la chiamo rezdora) che chiama papazeen le frittelle di cui dicevo poc'anzi. La cosa non mi stupisce ed è tipico delle province confinanti chiamare con lo stesso nome cose diverse.
Ingredienti per 16 papasin:
500g di farina di castagne
4 cucchiai di zucchero di canna grezzo
acqua q.b. (circa 300ml)
1 manciata di pinoli
1 manciata di uvetta passa
1 pizzico di sale
Procedimento:
mettere a bagno l'uvetta in acqua tiepida, volendo aggiungete un po' di rhum al gusto e lasciate in ammollo una ventina di minuti.
Mescolare bene la farina di castagne con lo zucchero, aggiungere un pizzico di sale e cominciare ad aggiungere acqua fino ad ottenere un impasto piuttosto modellabile, come nella foto.
Aggiungere l'uvetta ammollata e i pinoli, quindi formare dei cilindri da sistemare sulla leccarda.
Infornare per una ventina di minuti a 180 gradi, finché non vedrete imbiancare leggermente l'esterno.
A me piace mangiarli freddi.
sfornato da
Byte64
alle
23:30
5
assaggi
archiviato in Cucina mantovana, Dolci, Piatti poveri, Roba d'altri tempi
sabato 22 novembre 2008
Ciambella di ricotta
Quando si dice la combinazione!
Paola, sul suo blog, ha appena proposto una ricetta di focaccia nello stile del forno di Trastevere e per qualche coincidenza a me ieri sera è venuta l'ispirazione di fare una torta (o ciambella?) che mia moglie compra sempre in quel posto quando va a Roma. La mia è ovviamente un'imitazione, non conoscendo la ricetta originale, però mi sembra che il risultato sia molto simile.
Si tratta di una torta, ma chissà perché questo termine mi suona strano e mi viene da dire piuttosto ciambella, anche se non ha il buco, a base di ricotta di pecora. In realtà si può fare benissimo anche con la ricotta di mucca, ma per essere più filologico la faccio sempre con quella ovina visto che a Roma è quella che va per la maggiore e poi a proposito di pecore romane, ho un aneddoto da tramandare ai posteri.
Qualche anno fa ero a Roma per un corso ed una mattina, mentre stavo in autobus al semaforo tra via Cristoforo Colombo e via Oropa, vedo due vigilesse che inseguono tre pecore, con tanto di placcaggio rugbystico per evitare che una delle lanose creature finisse in mezzo all'incrocio.
Che dire, piuttosto surreale come veduta alle 8 di mattina, però una cosa è certa, a Roma la ricotta dev'essere freschissima davvero se le pecore pascolano perfino in città.
Procedimento:
mescolare la ricotta con lo zucchero fino ad ottenere una crema liscia, poi aggiungere i tuorli d'uovo, tenendo da parte le chiare, infine aggiungere la farina mescolata al lievito vanigliato, un po' alla volta. Montare le chiare d'uovo a neve ferma e poi incorporarle lentamente al resto, mescolando delicatamente. Imburrate una tortiera con la cerniera, direi che l'ideale sia di diametro non superiore ai 22cm, la mia è da 20cm perché mi piace che la ciambella venga piuttosto alta. Infornare per circa 50 minuti, inizialmente a 200 gradi, abbassando poi a 180 quando la parte superiore avrà preso un bel colore. Estrarre dal forno quando lo stecchino infilato al centro uscirà asciutto.
La consistenza di questa ciambella è compatta, morbida, non friabile ed è una delle mie preferite tra le ricette di torte rapide.
sfornato da
Byte64
alle
15:00
0
assaggi
archiviato in Cucina italiana, Dolci, Imitazioni, Torte
domenica 16 novembre 2008
Polvorones tradicionales mexicanos
L'influenza della cucina europea su quella messicana raggiunge probabilmente l'apice nella pasticceria, una categoria gastronomica sicuramente sconosciuta alle civiltà precolombiane, in cui la distinzione tra dolce e salato, tra pietanza e dessert, se mai sia esistita, poteva essere appannaggio solo delle classi privilegiate, non certo delle classi popolari.
Ma se anche il Huey Tlatoani poteva concedersi il lusso scegliere tra dozzine di piatti quel che più gli aggradava, non risulta che tra i piatti preferiti apparisse alcunché di analogo ad un odierno pasticcino.
La situazione ovviamente cambiò completamente con l'arrivo degli Spagnoli e dei missionari. Nel corso dei secoli, nei conventi delle suore , furono inventati vari piatti che ora formano il patrimonio gastronomico del Messico contemporaneo e che il Messico ha tentato perfino di far proteggere dall'Unesco, così com'è avvenuto in campo urbanistico o artistico, inutilmente almeno finora. Tra questi piatti di origine, come dire, ecclesiastica, bisogna ricordare il mole, i chiles en nogada, il rompope, giusto per dire i primi che mi vengono in mente.
Con l'arrivo dalla Spagna (e non solo) di emigrati che portavano con sé ricette e tradizioni locali, ma anche con l'impianto di colture sconosciute in precedenza, come quella del grano (trigo), entrarono a far parte della gastronomia messicana prodotti come il pane da tavola (bolillo) o dolci come il pan de huevo (pan de muertos) o la rosca de Reyes.
I polvorones perciò sono prodotti ottenuti a partire da prodotti locali secondo una tradizione ed un gusto prettamente europeo, tant'è che tuttora potete trovare ricette spagnole di polvorones che si discostano un po' da quelli messicani, anche se si capisce che l'origine è comune. Il termine polvorón inoltre sembra indicare un'intera categoria di dolcetti friabili per cui, se cercate, ne incontrerete di vari sapori e colori, con o senza mandorle, con o senza cacao e via elencando.
Per chi volesse farsi un'idea di come sia un polvorón messicano, posso dirvi che la consistenza è simile quella dei canestrelli, quei pasticcini friabilissimi e delicati ricoperti di zucchero a velo. Se non avete mai mangiato un canestrello, beh, vorrà dire che proverete prima i polvorones...
La ricetta è quella del mio libro preferito di ricette messicane, las fiestas de Diego y Frida, una miniera di ricette fantastiche, ma soprattutto autenticamente tradizionali.
Ingredienti per 24 pezzi circa:
450g farina tipo 0
150g strutto
150g burro
150g zucchero di canna chiaro (tipo il golden caster o il demerara)
2 bicchierini di rhum (vedi nota in fondo)
pizzico di sale
Procedimento:
sbattere lo zucchero con il burro e lo strutto a temperatura ambiente fino ad ottenere una crema. Aggiungere la farina e impastare bene, più si impasta meglio è. Aggiungere anche il rhum. Verrà fuori una pastella abbastanza liscia ma non compattissima.
Stendere la pastella in modo uniforme per ricavare dei cerchi con l'aiuto di uno stampino o di un bicchiere, se no potete anche fare delle piccole palle prendendo di volta in volta circa la stessa quantità col cucchiaio, poi le schiacciate delicatamente fino ad ottenere un disco direttamente sulla teglia che avrete ricoperto con carta da forno.
Infornare a 180 gradi per 20 minuti al massimo.
I polvorones devono rimanere abbastanza chiari e presentare solo qualche leggera screpolatura.
Una volta raffreddati si cospargono di zucchero a velo prima di servirli.
Per me sono deliziosi.
Post Scriptum: per chi volesse sperimentare una variante patriottica, può provare anche questa di polvorones con mais y tequila estilo Tlazolteotl.
Post Post Scriptum: mi fanno notare dalla Nuova Zelanda che loro i bicchierini non sanno proprio cosa sono, l'unica unità di misura è la pinta :-D
A beneficio dei kiwi, diciamo che un bicchierino italiano va inteso come medio caballito, al massimo un paio di cucchiai da cucina. Insomma, la funzione del liquore dev'essere quella di dare aroma e basta. Nel dubbio si può assaggiare, dopo aver mescolato il tutto si deve sentire un vago sapore, ma non deve essere predominante.
sfornato da
Byte64
alle
10:40
9
assaggi
archiviato in Cucina messicana, Dolci, Pasticceria
sabato 15 novembre 2008
Farinata di ceci, fainà per i genovesi
La farinata di ceci ha un sapore di tempi lontani, un po' come la sfuiada di Finale Emilia, come il fiapón od i papasín mantovani, i borlenghi o i ciacci dell'appennino modenese, il camote al carbón o los esquites asados messicani. Una di quelle invenzioni gastronomiche, non si sa se frutto del caso e o della necessità, che serviva a dare energia o conforto in una giornata piovosa o nebbiosa, confezionata magari in quella carta da frittura color ocra, bollente, da gustare per strada.
La storia della farinata è abbastanza curiosa, ma stavolta, a raccontarla non sarò io, bensì Mitì ed i Taccuini Storici. Le dosi sono identiche a quelle riportate da Mitì, la cottura però è stata più lunga, colpa, credo, del mio forno.
Esistono naturalmente varianti locali di questo prodotto e al variare della località magari variano un po' gli ingredienti e lo spessore. Mi sembra di capire, non avendo avuto ancora la fortuna di assaggiarla in prima persona, che la versione toscana, detta torta di ceci o cecína, sia più sottile e croccante, mentre la farinata genovese è più morbida.
Procedimento: setacciare la farina di ceci e versarla in una zuppiera. Aggiungere lentamente l'acqua, mescolando con una frusta, si deve evitare la formazione di grumi. Si otterrà un composto molto liquido. Aggiustare di sale, due o tre pizziconi dovrebbero bastare. Lasciare riposare il composto per qualche ora. Nel mio caso l'ho lasciato circa 2 ore. Passato questo tempo, accendente il forno al massimo e prendete una leccarda ampia, la mia è circa 40x50cm e lo spessore finale è venuto perfetto, tant'è che mia moglie, di ritorno da Chiavari, ha portato due pezzi di farinata "originale" e quasi non si vedeva la differenza, né come sapore, né come consistenza, né come spessore (vedi foto sotto). Versare il composto nella teglia, filtrandolo con un colino e mescolarlo bene con l'olio. E' indispensabile cercare di disporre la leccarda in posizione perfettamente orizzontale dentro al forno, se no vi uscirà una farinata dallo spessore variabile e con differente grado di cottura. Io l'ho infornata per circa 30 minuti a 250 gradi teorici, non credo che il mio forno faccia veramente quella temperatura. Essendo la leccarda di alluminio, quindi ottimo conduttore di calore, l'ho messa abbastanza in alto, vicina alla fonte di calore e in effetti mi sembra sia riuscita molto bene. Nella foto in basso, a sinistra quella comprata da mia moglie e a destra la mia, un pelino più chiara. La farinata va mangiata ben calda ed oggi l'ho scaldata per 5 minuti in un piccolo grill elettrico, dal quale è uscita quasi croccante e sfrigolante. Una bella macinata di pepe nero sopra, se la gradite.
sfornato da
Byte64
alle
17:00
0
assaggi
archiviato in Cucina italiana, Cucina ligure, Legumi, Roba d'altri tempi
domenica 9 novembre 2008
Amaretti di Modena e varianti tlazzesche
Nella non vastissima gamma di dolci della cucina tradizionale modenese spiccano gli amaretti di Modena, un dolcetto a base di mandorla che potrebbe benissimo campeggiare nella vetrina di qualche pasticceria siciliana. Si tratta di una ricetta che risale ad almeno 2 secoli fa, ma quelli spilambertesi pare addirittura al '500, anche se si dice che gli amaretti di Spilamberto siano diversi, in una di quelle diatribe strapaesane così tipicamente italiane.
Insomma, ieri, avendo delle chiare d'uovo avanzate, ho pensato proprio di riciclarle per fare questi deliziosi dolcetti la cui denominazione è protetta dalla camera di commercio di Modena.
Ovviamente la mia è una semplice imitazione e, come nel caso della torta Barozzi, non mi sognerei mai di dire che si tratti della vera ricetta, in primo luogo perché così non è, ma soprattutto perché, come nel caso delle crescentine, di ricette ne esistono almeno quante sono le famiglie modenesi... Oltretutto io sono solo modenese di nascita ma messicano per matrimonio e mentalità e quindi mi considero neutrale ;-)
La ricetta è di piuttosto semplice realizzazione, nel senso che non prevede lavorazioni prolungate o difficili, a meno che non vogliate deliziarvi con la macinatura a mano delle mandorle dentro al mortaio...
Ingredienti per gli amaretti di Modena circa 6-7 pezzi (moltiplicate in funzione della quantità desiderata):
1 albume d'uovo
80g zucchero.
100g di mandorle dolci
5g di mandorle amare (2-3 mandorle) oppure 20g di amaretti
2 cucchiai di pane grattugiato
un pizzico di sale
burro q.b.
Procedimento:
premessa: se volete ottenere dei dolcetti dal colore più tenue, come quelli delle foto, usate la mandorla pelata non tostata, altrimenti potete provare con mandorle tostate oppure una miscela dei due tipi. Io li ho fatti con entrambe e il colore cambia abbastanza, nel caso della mandorla tostata tendono sicuramente ad uscire più, come dire... abbronzati, per usare un termine in voga.
Nota bene: per ottenere il distintivo sapore amarognolo è indispensabile usare anche qualche mandorla amara.
Insomma, una volta ottenuta questa specie di farina di mandorle,mescolarla bene allo zucchero. Aggiungere anche il pane grattugiato (che secondo me è il presunto segreto nascosto nella ricetta originale per mantenere morbido l'interno dell'amaretto).
Montare le chiare d'uovo a neve fermissima. Cominciate quindi a unire un po' della farina di mandorle e zucchero alle chiare, mescolando da sopra a sotto lentamente, per evitare di smontare le chiare. Proseguire fino ad esaurimento dell'impasto.
Gli amaretti si formano prendendo una dose d'impasto con un cucchiaio e disponendolo sopra la leccarda imburrata. Ora, dalle foto voi vedete che io ho usato la carta da forno e secondo me qualcosa cambia perché il saporino dell'imburratura va perso. In un tentativo posteriore ho ripristinato l'uso del burro lasciando da parte le comodità tecnologiche.
Infornare per meno di 20 minuti a 200 gradi circa.
Varianti apocrife e tlazzesche:
partendo dalla ricetta base, è facile ricavare dolcetti simili e infatti ho pensato di sbizzarrirmi con varianti più o meno rodate. Devo dire che sono tutte gradevoli, specialmente se volete dare un tocco di colore per confezionare questo genere di dolcetti in occasione di una festa. Non starò a ripetere il procedimento che è identico in tutti i casi, cambiano solo gli ingredienti.
al pistacchio:
aggiungere 40g di pistacchi di Bronte macinati ogni cento grammi di mandorle.
al cocco:
sostituire la quantità di mandorle con equivalente farina di cocco (cocco grattugiato).
al cocco-stracciatella:
aggiungere all'impasto al cocco, due cucchiai di cioccolato fondente extra a scagliette.
al caffè:
aggiungere un cucchiaio di caffé macinato finissimo ogni 100g di impasto alle mandorle.
E con questo assortimento di sapori e colori, potete preparare un simpatico vassoio di dolcetti e fare la vostra ... figura in società.
sfornato da
Byte64
alle
20:50
3
assaggi
archiviato in Cucina italiana, Cucina modenese, Dolci, Imitazioni, Riciclare, Tlazzate e Tlazzerie
domenica 2 novembre 2008
Caldidolci
Mentre in Messico la festa del giorno dei morti raggiunge il suo apice proprio oggi e le merende a base di pan de muertos e chocolate caliente sono la regola, a Mantova e a quanto pare pure nelle zone limitrofe è tradizione preparare, per questa ricorrenza e solo in questa, i caldidolci, detti zaleti nel veronese, cioè dei dolcetti a base di polenta e quindi di messicanissimo mais in ultima analisi.
Come potete immaginare, quando c'è da pontificare su finte analogie geo-culinarie, Tlaz non si tira certo indietro!
In realtà in questo caso sarebbe ben difficile andare al di là di una vaga affinità di certi ingredienti, perché un tamal non assomiglia per nulla alla polenta nostrana e i tamales dolci hanno comunque una consistenza completamente diversa.
E chiudiamo qui la parentesi.
Una volta era impossibile trovare i caldi dolci sia il giorno prima, sia il giorno dopo, da questo punto di vista il rigore della tradizione si è affievolito ed in qualche pasticceria si riescono a trovare perfino la settimana precedente.
Dato che però raramente mi capita di essere a Mantova in queste occasioni, ho deciso di rispolverare una ricetta di mia madre che in varie occasioni mi ha dato ottime soddisfazioni.
Purtroppo ho perso i riferimenti sull'origine di questa ricetta, ma credo provenisse da qualche fonte "certa".
Intendiamoci, quelli di pasticceria sono più bellini a vedersi, però a volte mi è capitato di mangiarne anche di piuttosto insipidi, per cui se uno impara a farli, dopo può regolarsi secondo i propri gusti, più canditi, meno uvetta, più sale, meno cannella e via discorrendo.
Ingredienti x 20-24 pezzi:
700ml latte
300ml acqua
120g zucchero
300g di farina di mais gialla tipo fioretto
120g di uvetta
100g di burro
50g di canditi (scorza d'arancia e/o cedro)
40g di pinoli
1 bustina di vaniglia
4 chiodi di garofano
scorza di limone q.b.
cannella macinata q.b.
sale q.b.
zucchero a velo q.b.
Procedimento:
si inizia mettendo a bagno l'uvetta preferibilmente in vermut tiepido, con i chiodi di garofano, ma va bene anche un vino bianco dolce, meglio ancora se passito. Mentre l'uvetta è in ammollo, si prepara la polentina, versando in una casseruola latte, acqua, zucchero, vaniglia, un pizzico di sale e una grattatina di scorza di limone. Dato che non avevo limoni non trattati, mi sono preso la libertà di sostituire la scorza di limone con un mezzo bicchierino di limoncello. Portare il tutto a bollore. A questo punto si versa un po' alla volta, a pioggia, la farina di mais, mescolando rapidamente con una frusta per evitare la formazione di grumi. La consistenza della farina di mais è importante, serve quella sottile per avere dei dolcetti più omogenei. Io non avevo della farina tipo fioretto in casa, per cui ho preso quella gialla normale e l'ho rimacinata un po' alla volta con un meraviglioso macinino moulinex che deve avere almeno 30 anni e che spero non si rompa mai. Menate la polenta per una ventina di minuti, eventualmente aggiungendo un po' di liquido in modo che non diventi eccessivamente soda. Quando la polenta inizia a rapprendersi, aggiungete anche il burro. Poco prima di toglierla dal fuoco aggiungete anche l'uvetta e i canditi.
Consiglio di versare la polenta su un ripiano freddo leggermente imburrato e di stenderla alta un dito circa. Lasciatela raffreddare leggermente, verificatene la consistenza, dovrete essere in grado di ricavare dei rombi, eventualmente anche usando degli stampini. Disponete i rombi su una leccarda o su due se non entrano in una sola, cospargete i pinoli, spolverizzate di cannella e infornate a 200 gradi per 10 minuti scarsi. Lasciate intiepidire e poi spolverizzate di zucchero a velo prima di servirli.
Vanno mangiati tiepidi, per cui quelli avanzati è meglio riscaldarli brevemente.
PS: nelle mie foto i caldidolci sono abbastanza irregolari perché non avendo dove stenderli li ho messi assieme a mano. Se invece versate la polenta su un ripiano vi risparmierete anche qualche scottatura...
sfornato da
Byte64
alle
22:30
4
assaggi
archiviato in Cucina italiana, Cucina mantovana, Dolci, Ricette della nonna
sabato 1 novembre 2008
Risotto con le salamelle
Oggi si parla del risotto più famoso della cucina mantovana: al risòt con le salamele.
Casomai i fini dicitori e gastronomi potranno accapigliarsi sul fatto che si tratti di un riso e non di un risotto, come nel caso del riso (o risotto?) coi saltarelli, già apparso su questi schermi di recente, ma non credo che ci siano dubbi sul fatto che il risotto con le salamelle sia il principale protagonista tra i primi a base di riso della cucina mantovana.
La ricetta che do è quella che faceva mia madre, ma lei andava sempre a occhio, anche perché oggi, per curiosità, sono andato a consultare un libro di cucina mantovana e a momenti svenivo, dato che nella ricetta proposta appare il peperoncino e perfino del concentrato di pomodoro (orrore!).
Ora, in fatto di peperoncini credo che di non avere pregiudizi di sorta, anzi, ma che c'entrino con la cucina mantovana, ecco, proprio no.
Quindi la ricetta sarà tradizionalissima, integralista, senza concessioni a varianti esotiche.
Poi oh, magari sono io che sono ignorante, il che non è da escludere ;-)
Per fare un buon risotto con le salamelle ci vogliono almeno due cose buone: il riso tipo vialone nano e le salamelle mantovane (quelle con l'aglio).
Le salamelle si possono tranquillamente surgelare e scongelare secondo l'esigenza.
L'ultima volta che son passato per Mantova ne ho comprate quattro e le ho subito surgelate, in attesa di usarle.
In realtà essendo un piatto semplice, occorrono tutti ingredienti di prima qualità per ottenere i migliori risultati. Questo per dire che non basta la buona volontà se si è armati di comune salsiccia o peggio ancora di salsicce aromatizzate all'anice o piccanti, per quanto buone.
Casomai se uno non ha del grana padano DOP, ecco, se lo sostituisce con del parmigiano, (quasi) nessuno avrà da obiettare...
Ingredienti x 4 (con bis):
500g riso vialone nano
2 salamelle 260-280g circa in totale
100g burro
2 manciate di formaggio grana grattugiato
1,5 litri di brodo (o 1,5 litri di acqua e 2 dadi da brodo)
Procedimento:
Questo riso o risotto si cuoce con la tecnica detta alla pilota. Portate ad ebollizione il brodo e versateci il riso, dopo di che copritelo non ermeticamente e dimenticatevene per 10 minuti. Il riso non va mescolato, lo si lascia andare finché non avrà quasi assorbito del tutto il brodo.
Mentre il riso cuoce mettete il burro a soffriggere in una padella. Togliete il budello alle salamelle e quando il burro inizia a sfrigolare aggiungete le salamelle sbriciolandole con le mani.
Se la salamella non è il non plus ultra come qualità, potete cercare di aggiustare un po' con una grattatina di noce moscata, un po' di pepe nero macinato fresco e un goccio appena di vino bianco, ma ripeto, se la salamella è buona non è necessario.
La salamella deve semplicemente cambiare colore, non va fritta.
In realtà a Mantova in qualunque salumeria vi possono dare direttamente il cosiddetto pesto, ma io sono ancora tradizionalista e mi piace proprio partire dalla salamella.
Quando il riso sarà quasi all'asciutto, aggiungete la salamella e mescolate, in teoria questa operazione dovrebbe avvenire al massimo 5 minuti prima di servire. Assaggiate e se è quasi cotto, spegnete, mettete il grana grattugiato e coprite per qualche minuto.
Eventualmente si serve con altro grana grattugiato ad libitum.
sfornato da
Byte64
alle
22:45
2
assaggi
archiviato in Cucina italiana, Cucina mantovana, Primi, Ricette della nonna, Risotti